Ci sono tanti modi di vedere la vita.
Come una successione infinta di eventi, come un’avventura, come un affanno insensato verso il nulla. Io ancora non conosco il mio, ma so come evitarlo.
Lavoro in un bar a qualche passo dalla spiaggia. I vetri sono anneriti dal numero infinito di gocce che vi hanno ruzzolato sopra. Il bancone è decorato da vetri di bottiglia smussati dalle onde. Odore di salsedine ed un caleidoscopio di colori quando il sole li colpisce.
Mi lavorare al bar perché mi permette di vedere sempre gente diversa. Oggi al bancone è seduto un ragazzo con i capelli arruffati ed un paio di occhiali calati sul naso. È appollaiato sullo sgabello più lontano dalla porta e sta leggendo un libro rilegato in pelle. Le avventure di qualche capitano con la barba bianca. Per terra, al suo fianco, una borsaccia consunta che conterrà una Polaroid ed un iPhone 6. Metto particolare impegno nel suo cappuccino sapendo che finirà su qualche social network. Non alza lo sguardo quando glielo poggio davanti.
Sa di mare.
Tutti ne sanno.
In fondo alla stanza è seduto un vecchio pazzo con la faccia consumata dal sole e qualche dente mancante. Arriva ogni mattina alle otto e se ne va verso le dieci e mezza. Ordina sempre un tè alla menta con uno spicchio di limone ed un espresso. Aspetta che il caffè sia freddo prima di berlo.
Non tocca mai il tè.
So che è pazzo perché una volta l’ho visto parlare ad un piccione col viso spiaccicato contro la vetrina del locale, i residui di bava da pulire alle undici. Eppure continuo a pensare che quel tè alla menta con uno spicchio di limone sia per qualche amico di cui lui aspetta ancora l’arrivo. Magari di una delicatezza femminile di cui tutto ciò che è rimasto è quella foglia che lentamente macera nel liquido caldo.
Odio finire di lavorare. Sono una studentessa universitaria perciò fine del lavoro significa casa e casa significa studio e bollette da pagare e pavimenti da lavare. Continuo a consumarmi per cercare di restare in una gabbia di cui davvero poco mi importa. Come la cera di una candela che goccia insistentemente nel suo piccolo contenitore, distruggendosi solo per tornare se stessa. Tutto questo perché nessuno ha avuto la pietà di soffiare.
Certe volte, quindi, non ci torno a casa. Vado in spiaggia. La spiaggia al tramonto è molto più affollata di quanto mostrino i film. Coppiette che limonano, ciccioni che corrono e facce stanche che portano a spasso il cane. Devo camminare un bel po’ per trovare un minimo di tranquillità, ma non mi dispiace. Il rombo del vento e lo squittio dei gabbiani, lo scricchiolio dei ciottoli sotto i miei piedi: un’orchestra che si esibisce specialmente per me.
In piedi a qualche metro dalla riva c’è un ragazzo. È biondo ed è un artista. Lo vedo spesso in quello stesso punto, ritto davanti al cavalletto che non monta mai davanti a me. Dipinge sempre paesaggi diversi, mai il mare.
Sono innamorata di lui.
Molte volte sono stata in sua compagnia sulla spiaggia e lui mi ha sempre servito una tazza di calda indifferenza. Non sembra si sia mai neanche accorto della mia testolina o della borsa che ogni volta faccio cadere ai suoi piedi, in una muta richiesta di protezione. Per questo lo amo.
Come al solito faccio qualche passo verso le onde, finché i miei piedi non sono accarezzati a intervalli regolari dal pigro stiracchiarsi dell’acqua. Sento la tela delle scarpe inzupparsi e inizio ad avanzare. Mi fermo di nuovo quando la gamba dei jeans è ormai un’armatura pesante e appiccicosa ogni volta che le onde fuggono da lei. Un altro paio di metri e la stoffa della maglietta si gonfia, lasciando che il mio torace venga avvolto da mille mani salate. Ormai solo le mie spalle affiorano dall’acqua, come due piccole isole sorelle. Davanti a me c’è il sole che si sistema comodo sulla linea dell’orizzonte. Prendo un bel respiro e mi immergo.
Resto così, per un paio di secondi, ad assaporare la sensazione di non pesare nulla accoccolata in un cielo a testa in giù. Aspetto ancora poco e poi la inizio a sentire, la mia umanità che mi ridà dimensione prepotentemente, con il cuore che sbatte sulla cassa toracica, anelando a quella distesa d’ossigeno poco sopra il confine del mare. Apro gli occhi e tra i fumi acidi che li corrodono vedo i figli del sole danzare pigramente sopra di me. Allungo una mano ed apprezzo il mio intero corpo che spinge e lotta per quel poco d’aria così vicina. Sento i polmoni contrarsi e la testa affievolirsi, se resto ancora un po’ scoprirò chi vince fra l’istinto e il cervello. Ed è proprio qui, questo preciso momento che cerco. Quando, affacciata da una finestra salata sul mio bene più grande lo sento.
Irrefrenabilmente,
indubbiamente,
viva.