domenica, febbraio 01, 2015

CONTRARI

Io mi ritengo fortunato: non tutti conoscono la data della propria morte, né il modo esatto in cui  essa avverrà.
Quando mi sveglio, quel lunedì di marzo, le uniche sensazioni che avverto sono tranquillità e soddisfazione, nella stessa densa mistura che ti si spalma addosso quando spunti una voce da una lista di cose da fare. So perfettamente cosa succederà e come succederà, stasera potrò spuntare un'altra casella. In senso figurato, s'intende. Perché questa sera sarò morto.
Non ricordo chi disse che è più facile accettare la propria sofferenza quando si sa che avviene per un bene più grande, forse ho coniato ora questo detto. Il punto è che è vero: la mia non sarà una morte vana, bensì un sacrificio. La data in cui avverrà sarà ricordata, io celebrato. Va fatto per i miei amici, i miei cari. Non lasciatevi ingannare, però: non sono un martire, né un volontario. Sono stato estratto. Se fosse dipeso da me, non avrei mai deciso di interrompere questa mia esistenza, ma sarò comunque celebrato come se tutto dipendesse da un mio grande atto di coraggio, perché è così che funzionano le cose. E perché cavoli, sono io quello a rimetterci la vita, almeno un minimo di riconoscimento credo mi sia dovuto.
Rotolo giù dal letto pesantemente. Ho deciso molto tempo fa, una volta conosciuto il mio destino, che quel giorno avrei bandito dalla mia mente l'idea dell'ultimo. Non avrei pensato 'é l'ultima volta che faccio colazione, l'ultima volta che vedo Tizio e Caio, l'ultima volta che cammino su questi pavimenti'. No, mi avrebbe solo depresso. Al tempo decisi che mi sarei concentrato su una poesia, e me la sarei ripetuta per tutto il tempo. In questo modo la mia mente sarebbe stata troppo impegnata, troppo piena per pensare alle ultime cose che facevo. Così eccomi qua, davanti allo specchio, mentre mi guardo ma non mi guardo. I miei occhi registrano i miei lineamenti, i miei peli bianchi, le pupille piccole e nere, questo aspetto così familiare che guarderò per l'ultima che tante volte mi si è presentato davanti, anche per caso. Nel riflesso di una finestra, nella trasparenza di una pozzanghera. Quante volte ho subito distolto lo sguardo, annoiato o disgustato. Quante, invece, ho indugiato, esaminandomi meglio, imparandomi più a fondo. Poche, questo è certo. Mai da sobrio, ancora più certo. Ora invece mi sono di nuovo davanti, ma la mia mente è troppo impegnata nella recitazione della mia poesia per curarsene.
Esco di casa senza salutare nessuno. Il fatidico giorno decisi anche che avrei passato la mia ultima notte (e mattina) da solo, senza familiari o amici. In questo modo avrei evitato occhi lucidi, abbracci, addii e altre cose che mi avrebbero distratto dalla poesia e riportato alla realtà, che in quel momento era l'unico luogo dove non volevo essere. Piego la schiena alla pesantezza del freddo della mattina appena nata, e mi incammino verso la piazza. Là accadrà tutto, là io diventerò niente. Ma questi pensieri non raggiungono il mio cervello, protetto da una spessa muraglia di parole di un poeta ormai passato o dimenticato. Quando arrivo ad un centinaio di metri dalla piazza, inizio a sentire il sudore che mi imperla, conferendomi una lucida beltà. La mia mente vacilla, le parole si confondono. Decido di ripetermi i nomi di chi se ne è andato prima di me, un modo come un altro per proteggere la mia testa dalla paura e per ricordarmi che chiunque, poi, conoscerà il mio nome. Mi concentro su questo futuro. Immagino foto di me stesso che tappezzano la città, individui che non conosco scoppiare il lacrime, cuccioli che parlano di me a scuola e pronunciano il mio nome con sommessa reverenza, sperando che quello che è successo a me non capiti mai a loro. Lo spero anche io, tanto.
Quando arrivo sono completamente zuppo. La mia pelle si è piovuta addosso. La piazza è gremita, come per tradizione, nessun segno di un muso conosciuto. Li immagino a casa propria, che guardano apatici la parete davanti a loro, sapendo che in questo preciso momento, qualcuno che amano, un pezzo del loro cuore, sta per non esistere più. Il Capo mi vede arrivare e mi rivolge un segno di assenso, poi indica il palco alle sue spalle. Non deglutisco perché tutta l'acqua contenuta nel mio corpo è stata espulsa sotto forma di sudore. Salgo le scalette tremolanti e mi posiziono al centro del palco, su una grossa X rossa. Poi mi accuccio. Cerco una posizione comoda, faccio grandi respiri. Vedo piano piano la folla crescere, con i ritardatari che zampettano veloci, desiderosi di vedere ed ignorare lo spettacolo allo stesso tempo. Vedo qualche cucciolo in prima fila e qualcosa disegna una crepa nella mia fortezza mentale. La luce bianca del ricordo si dispiega piano, assumendo a poco a poco colori e sfumature diversi. Sono io, appena un paio d'anni, con i miei amici. Siamo seduti sotto il palco, le facce lunghe e le lacrime facili, come i nostri genitori ci hanno insegnato. Ma quando avviene tutto, non riusciamo a distogliere gli occhi, con un fulmine di adrenalina che ci attraversa il cuore. Tremo leggermente, non per la paura, bensì per il modo in cui essa mi fa sentire: vivo. I miei amici hanno lo stesso sguardo spiritato, mi sembra quasi di sentirne il battito accelerato, ma so che appena sarà tutto finito noi parleremo solo di quanto è stato orribile e triste, altrimenti sarebbe strano. Mi chiedo se farò quest'effetto anche io, se qualcuno proverà un sottile piacere nel vedermi morire.
Una luce fortissima inonda tutto, fino a rischiarare la lucida muraglia di seta nera della città. Poi iniziano i rumori, fortissimi. Come un'acquazzone più violenta, ma senza acqua. I suoni si placano, si avverte solo una frequenza bassa, una serie di percussioni e, infine, di nuovo quel fragore torrenziale. So che questo tira e molla assordante dovrebbe durare almeno una ventina di minuti, e sono abbastanza certo che quando alla fine succederà, sarò già morto di infarto, considerando il mio ritmo cardiaco in questo momento. Ho appena iniziato a sviluppare una sorta di asma, quando una serie di note attutite e ben conosciute si fa largo nella confusione. Sento tutta la città trattenere il fiato, sappiamo esattamente cosa sta per succedere. Ho sentito quella musica così tante volte, mai avrei pensato che sarebbe stata anche l'ultimo insieme di note che il mio orecchio avrebbe assaporato, così fredde, grondanti di terrore. La frequenza bassa torna ed una lacrima si caracolla sul mio muso. Un boato attraversa la folla ed io alzo gli occhi. Eccola. La cosa più mostruosa del mondo. Sembra una zampa, ma non lo è. Enorme, liscia, di un colore stranissimo, simile all'interno delle nostre orecchie. Ha cinque lunghi ganci ad artiglio che incombono, in questo preciso momento, sopra di me. Scende lentamente ed io nascondo la testa fra le zampe. Quando la sento entrare in contatto con la mia schiena, vomito. È fredda, viscida, ma soprattutto, è forte. Prima che me ne renda conto sono sollevato in aria, il vomito una cascata disgustosa dalla mia bocca. Vedo la mia vita diventare sempre più piccola. Là sono cresciuto, là compravo da mangiare, là ci vivono certi che mi sono stati sempre antipatici. Tutto diventa più confuso e minuscolo man mano che mi allontano dalla città. Un'ultimo sguardo, sono così in alto che la vedo nella sua interezza.
Sono fuori.
Luci accecanti.
Un fragore fortissimo.
Sembrano applausi.